Articoli di Giovanni Papini

1896


La storia del leone
(Fiaba che comincia male e finisce bene)
Pubblicato in: L'Amico dello Scolaro”, anno III, fasc. 3, pp. 19-20
Data: 31 ottobre 1896
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Un bel giorno, anzi un brutto giorno, Sua Maestà il Re degli animali, o per dirla alla buona il leone, andandosene sulla sera a prendere una boccata d'aria, trovò un bel bambino di dieci anni appena, fresco come una mela rosa, e, senza far complimenti, (chè per i signori leoni il prendere un bambino è come a noi cogliere una rosa) l'afferrò tra le branche e lo portò tranquillamente alla sua reggia: una caverna nera come un camino in mezzo, a, un bosco fitto fitto come non ce n'è nemmeno in America. Figuratevi voi! — Il povero bimbo lì dentro era ingrullito dalla paura, e il guaio era anche che il leone non gli dava da mangiare che erba e carne cruda. Mah! i leoni son tanto maleducati! Forse se fosse andato da Giacosa e gli avesse portato una dozzina di pasticcini con di molto candito sopra, chi sa? il povero bimbo si sarebbe anche rassegnato a star con quella bestiaccia brontolona.
   E meno male fosse stato figliuolo di povera gente e avvezzato nella miseria, ma, se non lo sapete, vi dirò che era nientemeno che il primogenito di un re di un paese vicino, che non aveva al mondo altri che lui e una bambina natagli da poco che poteva aver due anni al più. Il povero padre era disperato addirittura perchè anche lui cominciava ad invecchiare; e, morire senza lasciare erede è una cosa brutta specialmente pei re; e anche tutto il paese era costernato, perchè è regola generale che quando i re piangono anche i sudditi piangono.
   Ecco che un bel giorno passa di lì un guerriero, un di quelli come ce n'eran solamente prima, e domanda la ragione di tutte quelle lacrime: gli raccontan la cosa per filo e per segno e appena l'ha saputa, senza far tanti discorsi s'arma da capo ai piedi e va verso la caverna. Entra e vede il leone li ritto davanti: sguaina la spada e il leone ride, l'allunga e il leone allunga l'unghie l'abbraccia colle branche, lo stringe, lo soffoca, lo stritola e quando il povero guerriero è diventato un bel pasticcio di sangue e ossa nella corrazza, se lo mangia e si volta dall'altra parte conte se non fosse stato nulla.
   Su un colle, li presso, viveva un eremita un sant'uomo d'Iddio di cui si bucinava avesse operato un monte di miracoli; dal pulpito poi rivendeva anche il padre Agostino da Montefeltro. Il buon frate udita la sorte dello sventurato eroe risolse di provare egli stesso l'avventura e senz'altro si diresse verso la spaventosa caverna. Giuntovi appena, si messe a fare al leone una predica coi fiocchi, dimostrandogli con belle ragioni come quel bambino non fosse suo, e come il suo dovere fosse di renderlo al suo babbo legittimo. E il leone duro. Allora il povero frate, visto ch'era lo stesso che pestar l'acqua nel mortaio, se ne tornò mogio mogio alla sua cella per paura di peggio.
   Il povero re che seppe tutto era nel colmo della disperazione, e per farla finita addirittura pensò di mandare contro quel maledetto leone un esercito intero. Detto fatto, vicino a mezzanotte, una schiera di soldati, tutti forti e valorosi e che avevan due o tre guerre sulla coscienza per ciascuno, capitanata da un celebre Rodomonte si mosse, gridando e cantando, verso la buia caverna. Appena giunti (perchè si sapeva che il leone mangiava gli eroi come una noce,) i soldati si posero in linea di battaglia, con gli archi tesi (i fucili a quei tempi non erano stati ancora scoperti) e fecero i lavori d'approccio come se si trattasse di prender la Fortezza da Basso. Il leone a tutto quell'armeggiare esce fuori e soldati giù a tirar frecce; ma o il leone fosse fatato o fingesse di non sentirle, non gli fecero ne caldo nè freddo. Tutto il fiero esercito stava zitto dalla meraviglia come se fosse davanti a un Dio. Allora il leone ruggì; parve un tuono; la terra tremò, gli alberi fremerono e l'esercito, dal capitano all'ultimo arciere, se la dette a gambe per il bosco e non si fermò finché non fu in città al sicuro. Figuriamoci, come restassero i cittadini a veder quei soldati, che non avean dato indietro a eserciti formidabili, fuggire in quel modo innanzi a un leone! Chi scappava di li chi di là: la mattina poi la paura fu anche maggiore: il leone era stato visto col bambino in bocca, sul monte vicino dirigendosi verso la città. Allora fu uno scappafuggi generale: fuggirono i soldati, fuggì il popolo, fuggì il re — anche il re! — In breve ora la città fu deserta. Intanto il leone se ne veniva in giù adagio adagio, col proponimento fatto di mangiarsi il principino proprio nel bel mezzo di palazzo reale e magari anche davanti a sua Altezza Reale suo padre. Arriva, vede le strade deserte, le case vuote, le piazze silenziose. Va a palazzo reale e lo vide aperto, ma anch'esso vuoto e deserto, entra e non vede nessuno passeggia a lungo e non trova un'anima. Il leone si mette a ridere nel veder tanta paura e nel ridere fa cadere sul tappeto lo sventurato principe già mezzo svenuto. A quella vista gli si ridesta un pò d'appetito


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e accomodatosi su una immensa poltrona che area servito chissà a quante eccellenze, si prepara a mangiare il povero piccino. Mentre però era per fare il primo boccone una vocina gli percuote l'udito: tende gli orecchi e sente una dolce canzone venir dalla stanza li accanto. Che sarà mai? dice fra sè, e spinto dalla curiosità riprende in bocca il povero bimbo, apre l'uscio ed entra.
   In una piccola culla parata di seta azzurra, una graziosa fanciullina (l'altra figlia del re) dimenticata nella paura generale giaceva ignara del suo abbandono e del pericolo che le sovrastava. Però la poverina che non aveva mai sentito parlar di leoni non n'ebbe paura alcuna, ma, vedendo il suo fratellino tutto bianco e muto pender ciondoloni dalla bocca di quella bestia, si pose a chiamare ad alta voce: Alberto! Albertino! Ma il leone duro. La bambina visto che non si dava pensiero d'obbidire.,. si alzò a sedere sulla culla e minacciò col ditino il mostro che la stava a guardare come. incantato.
   Allora accadde una cosa meravigliosa. Il Leone le si accostò pian pianino, posò gentilmente il povero principe presso la sorellina e come se ne era venuto se ne andò; fuggì dal palazzo, fuggì dalla città e non se ne seppe mai più nulla.
   E la morale? Tiratela voi: se poi la dovessi far io direi che l'amore val più del coraggio, della ragione e della forza, o magari, che i cuori più duri non sono insensibili alle preghiere della pura innocenza. E con questo ho finito.


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